Da quando mi occupo di statistica una delle frasi che mi sento dire più spesso è: “io di statistica non ci ho mai capito niente”. Addirittura qualcuno ha esagerato: “All’università la statistica la odiavo”. E a pronunciarle, queste parole, sono fior fior di ricercatori, studenti di dottorato, medici, biologi eccetera.
Mi piacerebbe guardare da vicino questa affermazione, provare a comprendere questa presunta difficoltà nei confronti della statistica, e a dare qualche suggerimento per imparare a “digerirla” con meno patemi.
Premessa: quelle che seguono sono considerazioni personali frutto della mia esperienza, di qualche lettura mirata e del parere di tanti colleghi.
Noi abbiamo problemi con il concetto di probabilità: allora usiamo le frequenze naturali
Noi esseri umani usiamo il meccanismo causa-effetto per capire un fenomeno. Abbiamo bisogno di cause chiare e fatti concreti. Abbiamo bisogno di certezze: se è presente l’agente eziopatogenico allora avrai la malattia. Sicuro come l’oro.
La statistica invece è soprattutto una disciplina acausale. Il paradigma che usa la statistica non è quello di causa-effetto ma quello di probabilità. E l’essere umano con le probabilità fa fatica. Uno studio pubblicato in Frontiers in Psychology da ricercatori dell’Università di Regensburg,Germania, ha guardato da vicino a questo concetto. In sostanza quello che emerge è che le persone fanno molta meno fatica a risolvere problemi espressi come frequenze naturali rispetto allo stesso identico problema presentato come probabilità. In pratica se in un problema i dati sono espressi come “1 su 40”, il quesito risulta più facile da comprendere per le persone rispetto a dire loro 2,5%.
Fatti, non probabilità. Questo è quello che capiamo come esseri umani.
Ironia della sorte, è stato anche osservato che, siccome la letteratura statistica e la didattica usata nelle università usa quasi sempre la percentuali rispetto alle frequenze, gli studenti tendono a trasformare le frequenze in probabilità nella risoluzione di un problema. Questa diavoleria della nostra mente si chiama “Einstellung Effect” ed è il processo per cui, di fronte a un problema noi usiamo non lo schema mentale più semplice per noi ma quello che è più comunemente utilizzato dai nostri colleghi, amici, eccetera.
Non ci dilunghiamo, andiamo oltre.
Gli insegnanti non sempre sono all’altezza: dobbiamo usare le emozioni e la “non democraticità” della statistica
Di bravi insegnanti, di quelli che vorresti che ascolteresti per ore senza stancarti, e ne sono pochi. E di insegnanti di statistica così ce ne sono ancora meno. In particolare, un insegnante di statistica, per quella che è la mia opinione, dovrebbero parlare di statistica in termini di fede, fiducia, amore e al limite filosofia. Non solo di numeri. Quando ci viene presentato un problema statistico dobbiamo sempre comunque essere coinvolti in modo emozionale per capirne il significato.
Un Prof di statistica medica mi parlò del Valore Predittivo Positivo in questi termini. “Tu la settimana scorsa sei andato ad una festa ed eri particolarmente sbronzo. Il giorno successivo ti sei risvegliato nel letto di una tizia nota per non essere proprio Madre Teresa di Calcutta. Oggi ti hanno consegnato il test per vedere se ti sei beccato una malattia sessualmente trasmissibile (diciamo HIV) e il medico ti dice che il Valore Predittivo Positivo del test è del 55%. Tradotto: su 100 positivi al test solo 55 hanno veramente la malattia. Cosa dici: ne vale la pena farlo questo test?”
A distanza di anni, tutti noi presenti ci ricordiamo cosa sia il Valore Predittivo di un Test. Non so perchè: c’è di mezzo lo storytelling, c’è di mezzo la battuta su Madre teresa di Calcutta, c’è la sbronza. Ma tutti ci ricordiamo di quella frase, di quell’esempio.
Quando ti approcci a discutere in termini statistici un problema cerca sempre di interpretarlo in termini emozionali o perlomeno come esso può avere ripercussioni sull’esistenza dell’essere umano.
Puoi sfruttare la “non democraticità” della probabilità.
Prendiamo una frase che potresti trovare in qualche slide di qualche lezione di statistica: “l’esposizione a quell’ambiente di lavoro fa aumentare del 29% la probabilità di contrarre una certa malattia”.
Questo 29% ha un significato che è “modellato” dal soggetto che la legge: dalle sue convinzioni, dalla sua autostima, dalle sue credenze religiose, dal suo coraggio. C’è chi il 29% lo interpreta come: “più di due terzi di bicchiere pieno” e chi invece lo interpreta come “cavolo, sono spacciato”. La statistica è così: se la interpretiamo come tecnica e calcolo potrebbe diventare indigesta. Se la facessimo diventare emozione allora le cose diventano più facili.
Sii paziente e trovati un mentore
Quando ero specializzando al primo anno di Statistica Medica ero disperato. Di tantissime lezioni alle quali partecipavo non capivo niente. Un mio collega che era più avanti di me nella formazione mi disse: aspetta, stai li; arrivi a un punto in cui farai “il salto”.
La statistica essendo una materia astratta ma con applicazioni pratiche non è immediata. Io ho impiegato un anno e più di scuola di specializzazione per fare questo “salto”. Dal brancolamento nel buio e l’applicazione meccanica di formule, alla consapevolezza di cosa stessi veramente facendo quando applicavo le tecniche statistiche, ad esempio, ad un clinical trial. All’inizio capirai probabilmente poco; una volta fatto “il salto” capirai che è una disciplina non più difficile delle altre e che le tecniche statistiche stanno agli utensili di un idraulico come i problemi scientifici stanno al rubinetto da riparare. Per fare “il salto” e rendere la statistica tua amica devi praticare, praticare, praticare.
Aspettare. E se possibile trovati un mentore che ha fatto prima di te il tuo percorso.
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Salve, sono una studentessa universitaria iscritta presso la facoltà di statistica alla sapienza. Ho diverse difficoltà nello studiare materie come probabilità e inferenza statistica, ho letto che voi offrite supporto a laureandi, vi lascio il mio numero di telefono.
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Ludovica
Grazie davvero per questo utilissimo articolo